126° giorno – Spettro

La stazione, lunga duecento metri e alta quanto un hangar, è illuminata a ‘serata di Gran Galà’ per gli spettri che la abitano. Tra il ronzio delle scale mobili, i riflessi di vetrate a specchio che coprono congegni e schermi, arriva l’eco di un goffo mostro affamato. Affamato di umani. Proviene da quella tremenda oscurità nera che si vede lì in fondo, oltre gli archi e le luci ambra, i muri in mattoni bianchi.

Gli sono dentro ora, al mostro, con una suora a sinistra che “mi sembra di aver già visto” come ogni vecchia suora che vedo. Questa è carrozzata per il deserto, tessuto beige come una tenda eritrea, borsa in tinta, scarpe da trekking, pelle e tacco basso in gomma, pronta per una campagna evangelizzatrice contro Himmler. Di fronte a me, un uomo grasso sulla quarantina che piega e ripiega nervoso il suo biglietto con le mani piccole e tonde, tenute giunte vicino alla pancia con maglietta blu incollata sopra. Scritta ‘BLUEFIELDS PRO EDGE’ deformata, mentre le restanti sono come inghiottite dai rotoli di ciccia. Mentre mi fissa e io lo fisso, arriva una ragazza dalla porta posteriore, che cammina verso di me. Non è bellissima anche se ha gli angoli arrotondati al punto giusto e due occhi selvaggi che fisso con insistenza, distogliendoli dal grassone. Contraccambia lo sguardo finché non va oltre, ancheggiando pesantemente e calcando i passi con stivali pelle e frange, lasciandomi lì tra suora e ciccione innamorato di me, lasciandomi lì divertito con un paio di fantasie su di lei e sugli shorts che portava, lasciandomi li finché in uscita da quel bunker inabissato, mi ritrovo inondato dal sole con lingue di acciaio che scorrono sui fianchi.

Tra traversa di legno e traversa di legno, su quei binari, ci saranno circa quindici centimetri. Nei due lati corti delle traverse, un perno, diverse viti e bulloni.

Immaginate la noia di scavare, stendere quelle strisce di ferro, inserire, avvitare, bloccare, lubrificare ogni quindici centimetri per un metro, poi due metri e poi un decametro, quattro ettometri e mille chilometri. È così che muore un uomo, dopo anni. Muore e diventa uno spettro che mangia, caga, scopa, dorme ma senza sentire nulla, trascinandosi tra le esistenze degli altri spettri, raggruppandosi in piazze, cinema, centri commerciali, salotti bene, file ai bancomat o davanti a scaffali zeppi di roba inodore e insapore, finché non trovano il coraggio di volarsene via.

Prima eravamo in uno di quei posti da spettri, la vetrina di un distributore di soldi, debiti ed esistenze da prigionieri. Gustavamo mirtilli gonfi sorseggiando succo multivitaminico come se fosse l’equivalente di un Tavernello da tossico. Io allungato sull’asfalto, circondato da muri grigi e muri invisibili, lei seduta nell’angolo. La gente vestita bene passava e ci guardava con sdegno, la gente vestita male passava e ci guardava con sdegno. Sdegno per la mancanza di un tavolo su cui appoggiare mirtilli e succo, mancanza di sedie dove sedersi e non gradini in pietra. Sdegno per la mia mancanza di capelli e faccia tranquillizzante e la mancanza di italianità di lei, la presenza di tatuaggi. Sdegno per non occupare tempo in attività proficue invece di parlare per ore da amici, come se ci fosse un cartello “non bighellonare” affisso dietro le mie spalle, come canta Eddie in Crazy Mary.

“…Little country store with a sign tacked to the side. 
Said ‘NO L-O-I-T-E-R-I-N-G ALLOWED.’
Underneath that sign always congregated quite a crowd…”

Se ti siedi in basso sei meritevole di sdegno ecco il succo multivitaminico della vita.

“Che potere vorresti avere?” mi chiede. “Io un’altra me, per fare un sacco di cose, ancora e ancora, sperimentare su me stessa ma da fuori…” continua.

“Io un corpo astrale…” rispondo. “…uscire dal mio corpo e volare, entrare nelle case e nelle vite degli altri, osservare la normalità, la stranezza e quando accendono le luci la sera o si accorgono che l’acqua nella pentola sta bollendo, rimanendo invisibile e senza corpo”

Entrare in quei muri, oltre i cartelli ‘Zurich’ , dentro quelle bare per spettri.

C’è una ragazza sulla mia destra, un poco più in là, vicino ad un portone. La osservo mentre spolpo un mirtillo aspro nel mio micromondo molto basso. Ha la schiena bianca e nuda, braccia e gambe scheletriche, un vestito nero indossato maldestramente, con la testa dalla faccia gonfia e senza denti piegata di lato per tenere incastrato il cellulare sulla spalla, tenendo in equilibrio una bicicletta con una mano. Il cellulare cade e così la bici. Si china fino a terra con le gambe piegate quasi in modo innaturale per l’estrema lunghezza.

“È un ragno…sembra un ragno”

Rimane chinata per interi minuti per poi rialzarsi e far cadere di nuovo tutto e ora anche il contenuto della borsa è sparso per terra ed eccola di nuovo schiacciata sull’asfalto, come un feto, attorniata da quello che ha, mentre la gente passa con le loro borse, macchine, pensieri, biciclette e con il loro sdegno.

“Dovremmo aiutarla”
“Ho paura che possa urlare, strillarci addosso”
“Anch’io”

Rimango li, seduto in basso. Ogni tanto la osservo e bevo un goccio di succo di multi – vita -minico. Osservatore, invisibile, impalpabile, senza corpo. Corpo astrale.

Rimango li e non faccio nulla.

125° giorno – Agente segreto

“Bin Laden è un’invenzione della CIA americana” dice un tizio dall’aria sospetta e poco alla moda, mentre mi passa affianco, parlando con degli amici. “Accidenti” mi chiedo, quale oscuro segreto potrà mai custodire quest’uomo per dire una roba del genere? Cosa sa che il mondo ignora? E poi, esistono CIA da altre parti, non americane? Altra verità scomoda?

C’è il consorzio italiano agricoltori o roba simile se non ricordo male, che se sei il figlio di qualcuno di loro fai la vita dura a scuola.

“Mio padre lavora per la CIA”
“Bugiardo!” e giù botte. Ma è vero, gestisce la produzione di broccoli.

Agente segreto per la CIA, come nei film. Bello.

Poi però, penso che ci sarà per forza un portiere nell’edificio della CIA, o una alla reception o l’addetto agli ascensori. Anche quelli lavorano alla CIA. Gente che fa fotocopie, che prepara cibo in mensa, che pulisce gli uffici. Gente della CIA. Che si mette grembiuli, divise con spalline a spazzola, tute da operaio, ma con il pass della CIA. Porta fuori la spazzatura, con il cartellino della CIA.

Non so perché, ma a vederla così, non è mica come nei film.

124° giorno – C’è la crisi…

Prime commissioni da fare post-rientro. In mattinata visto che ho deciso di non andare a lavoro per grossi problemi, appuntamenti importanti, questioni di duro risolvimento, tutti riassumibili in un “non avevo nessuna cazzo di voglia di lavorare”. Prima tappa Vodafone Store che ho una gran voglia di finanziare produttori di cellulari recentemente. Vedete, il mio attuale intelligentofonino sta passando una mezza crisi, roba di violenza domestica in cui ammetto di avere colpe. Lo picchio, lo lancio, lo avvolgo in nastri adesivi per coprire le cicatrici che gli causo da bravo marito bastardo. La nostra relazione è finita da mesi.

Esco di casa con Sorella, vincolati ai soliti tempi stretti e limitati tipici di questo inferno. Nel viaggio di andata, scherzo sull’utilità di quel posto messo nel mezzo di quel cesso di paese in cui viviamo. Un progetto pretenzioso ma d’altronde  io tifo sempre per i poveri, i pazzi, i romantici, anche se finiscono male e il tizio era un mezzo hippy tranquillo e spaesato con capelli a caso e montatura improbabile.

L’ultima volta, prima di partire, mi ha pure regalato due cover.

“Mi sta simpatico…” anche se “magari lo troviamo chiuso” dico a Sorella, ridendo.

Lo troviamo chiuso. Dentro, rifiuti buttati a caso e il tavolino sbilenco con il simbolo Vodafone mezzo staccato. Serranda abbassata, vetri luridi con ancora le promozioni di agosto attaccate sopra. Sembra il risultato di uno scambio di opinioni post-G8 tra black block e polizia violenta. Controllo pure il pavimento alla ricerca di sagome fatte con il gesso e cartellini con i numeri sopra ma trovo solo pezzi di stand e rottami. Più che un negozio appena chiuso sembra un regolamento di conti con mazza da baseball per contorno. Roba di racket, roba di mafia.

Ci rimango male.

“Vabbe Elo, andiamo a prendere i cartelli” dico a Sorella, dopo 5 minuti di ‘rimanercimale’ con sguardo fisso.
“Che cartelli?”
“Ci servono due cartelli vendesi”

Di nuovo in macchina in mezzo alla giungla urbana umida lombarda ma per fortuna il negozio è vicino. Tempo due minuti parcheggiamo e andiamo verso “Targhe & Timbri” che di queste cose ne è sempre pieno. Subito di fronte al negozio infatti, sulla vetrina, ecco due cartelli vendesi, come quelli che cercavo.

“Per cessata attività” c’è scritto, nello spazio bianco.

Questa crisi ha rotto le palle.

123° giorno – La passerella

La gente si raggruppa come squali corallo attorno a due ballerini impegnati ad agitarsi su note brasicubanospagnole estive in rapida successione. Nei due secondi di pausa tra un tormentone e l’altro la gente applaude, la gente fa video, la gente balla.

Mi chiedo perché non se ne stiano seduti a pensare a cosa lasciano dietro, a dove stanno andando, a cosa ci sarà da fare domani. Mi chiedo perché ridono, perché sembrano in vacanza, perché mangiano gelati tutti rilassati mentre la vita è quella che è in un mondo che è quello che è,  una specie di passarella traballante affacciata sull’oceano. Ma sopra quel legno che oscilla ci sono solo io a quanto pare perché sembra evidente che sulle navi siano tutti felici. Tranne me.

“Vorrei dormire” dico ad un cane dall’aria assonnata ma quello si gira dall’altra parte. Forse anche lui vuole dormire. La sua padrona è sdraiata che prende il sole, addormentata. È bella e mi metto a guardarla per un po’ che tanto mancano ancora tre ore e mezza di ventosa navigazione e qua, la gente, non ha nessuna intenzione di smettere di divertirsi e di essere felice. La felicità altrui un po’mi nausea ultimamente e finisce che mi ritrovo con il mal di mare per la prima volta nella vita.

“Un’ondata anomala di felicità” dico tra me e me

“Che succede ragazzo…non ti piace la festa?” mi chiede  il capitano sceriffo con cappello da cowboy e stella sul petto. Stivali in coccodrillo, pipa in bocca e pizzetto. Non l’ho nemmeno sentito arrivare.

“Non so cosa voglia dire…sono solo depresso” rispondo

“Bhe, è meglio che ti fai tornare il sorriso ragazzo, non voglio problemi sulla mia nave, è tutto tranquillo e voglio che così rimanga, mi hai capito sì?”

Accarezza le due pistole sul fianco con i palmi della mano, roteandoli sui calci. “Ding” fanno gli speroni sul tacco.

Annuisco ma non capisco.

Un battito di ciglia ed eccomi sulla passerella della vita affacciata sull’abisso del mondo. Il ponte della Megaexpress three, la gente, il cane e la ragazza…tutto sparito.

Sotto la trave, tra la schiuma, è pieno di squali e il legno scricchiola e si muove, ondeggia per il vento. Aspetto che qualcuno mi ordini di camminare, di andare verso il bordo o che mi infili tre millimetri di acciaio formato spada nella schiena per “incoraggiarmi”ad andare avanti ma non sento nessuno. Strano, non è così che vanno le cose. La gente cattiva ci gode in situazioni simili.

Provo a girarmi, pronto a vedere le orde di pirati di cui sono prigioniero che iniziano a ridere e che mi spingono giù insultandomi e facendo scommesse ma li non c’è nessuno. Aguzzo la vista e li vedo, lontani, al centro del ponte del vascello, vele gonfie sopra di loro. Davanti a tutti c’è lo sceriffo che li fronteggia, mentre quella ciurmaglia di manigoldi sta in file ordinate. Sembra che rispondano a dei saluti militari impartiti dal capitano sceriffo ma non riesco a decifrarli e da qua non sento nemmeno che dicono.

Mi chino sulla passerella molto delicatamente e a gattoni raggiungo il muro di dritta gonfio di acqua e scrostato da sale e tagli d’accetta. Mi faccio largo tra barili di Grog e sartiame, sempre chinato ma ora sul ponte in legno nero che puzza da fare schifo e che mi unge mani e ginocchia.

Faccio attenzione mentre oltrepasso due mozzi ubriachi e svenuti e raggiungo l’albero maestro, alle spalle dei pirati, nascondendomici dietro, sporgendomi solo un attimo per osservarli e capire.

Butto un occhio oltre quel cilindro enorme. Li sento,li vedo.

Stanno ballando la macarena.

122° giorno – Il solito

Passo dal Bar Fraoni che è da sempre il crocevia di ogni “Che si fa?”. Entro e chiedo “il solito” che se ci pensate bene, è una cosa che tutti vogliono fare almeno una volta nella vita.

“Suonala ancora Sam…” mi viene da dire.

Schweppes, ghiaccio, limone. Non so da dove mi sia uscita, non ricordo di aver mai bevuto roba simile prima di un mese fa, altro bar, in un posto senza mare attorno, tavolino fuori, cameriera carina “Schweppes”
“Ghiaccio e limone?”
“Si, e mettici una cannuccia gialla”

Che ne so che qualcosa non sia cambiato di colpo quel giorno. Sono diventato vecchio forse, in quel momento, o diverso da prima, che le cose cambiano. Sentimenti che si trasformano, persone diventate irriconoscibili, posti che te li ricordavi completamente diversi. Quindi anch’io mi sento in diritto di cambiare qualcosa, che domani mattina parto e fra due domani “il solito” lavoro, “le solite”persone, routine e ritmi, scalette di marcia strette, un tempo di vita basato sui secondi, sull’essere utile e “se poi avanza tempo allora forse…”

Mha…22.36 e sto sputando sangue in un lavandino. Il mio nuovissimo spazzolino White Fresh bianco e verde a durezza media mi sta massacrando le gengive come un hooligan. Però pulisce meglio, è nuovo, con setole che fanno magie.

Cambiare le cose è dura, da perderci i denti per le musate, da sputare sangue. Ma so cosa voglio, forse da quando ho ordinato una Schweppes in un bar del Nord, non so. Provare ad ottenere quello che voglio, magari solo per collezionare un altro insuccesso alla fine ma non importa.

Il “solito” non mi basta più.

121° giorno – Alfabeto

La casa è stata denudata di ogni presenza umana e sembra pronta da affittare con armadi vuoti, comodini sgombri, materassi nudi. C’è un gran silenzio al posto dei miei oggetti, di Sorella, di mia madre, mio padre. Un silenzio che sgranocchia i mobili e fa cadere l’intonaco dai muri, corrode i fili elettrici, scrosta le persiane mentre della mia presenza rimane solo un terzetto di magliette da stirare, due pantaloni e uno spazzolino con dentifricio affianco, sapete no, per prevenire l’attacco degli acidi, entro trenta minuti dai pasti.

Luci tutte spente, anche quando mi faccio la doccia, bollente come al solito, ma soprattutto oggi che fuori piove e anche un po’dentro di me. Saluto la tendina trasparente opaca a pois colorati, lo specchio troppo poco generoso con le mie sconfitte estive, la porticina pieghevole. Saluto i salotti immacolati e il frigorifero, la scala e la vetrata gialla e le stampe sui muri, i miei “Topolino” i giornali d’auto di milioni di anni fa. Saluto casa mia.

Stupida la vita. Credo che sia un diritto dell’uomo vivere e iniziare a morire dove vuole il cuore ed invece non mi è possibile solo perché devo inseguire banconote stampate, persone più infelici di me e vivere all’ombra di palazzi e ciminiere, immerso nelle cento nuove malattie della grande città.

Ma perché “Sopravvivere” deve venire prima di “Amare” ?

Non funziona così l’alfabeto…

120° giorno – Surf

Mi reco sul mediterraneo per una giornata marina con contest surfistico annesso che pare portatore di giubilo e ilarità.

Posiziono il telo da mare sulla sabbia, mare e vento che accarezzano il volto in attesa di fisicati cavalcatori di spumosi cavalloni ondosi con una spiaggia gremita di giovani, tatuaggi, tette, tavole da surf, granite, ragazze denudate da ormoni impazziti.

Gli abili surfatori pagaiano tranquilli e amabili nelle mosse acque mediterranee. Un grosso drappo purpureo adornato da un infausto teschio, esplicita agli avventori spiaggiofoli che è certamente portatore di periglio l’avventurarsi nel tumultuoso mare.

Sono in attesa di questa sfida fra cavalieri marini quando una giovane puledra mi si para innanzi.

Sa il fatto suo, bella e sconcia, capelli rossicci e lentiggini, maglietta bianca, costume ultra mini. Passa quattro ore a piegarsi per raccogliere oggetti inesistenti, fare pose sexy, strusciarsi e imitare fasi di accoppiamento con il ragazzo, l’amico del ragazzo, la ragazza dell’amico del ragazzo. Ogni tanto lancia un’occhiata indietro per accertarsi che gli stiamo misurando il culo con il goniometro mentale o che ipotizziamo l’inserimento di carte bancomat nelle chiappe, decisamente un punto di forza, che mette in mostra in quarantacinque pose diverse di cui trenta del kamasutra. Si mette magliette, se le toglie. Si abbassa il costume, se lo tira su. Si passa le mani ovunque come se si spalmasse crema abbronzante addosso. Non ha creme in mano. Poi inizia a saltare addosso a tutti, imitando cavalcate selvagge ed effusioni, sempre a tre centimetri dalla mia faccia tra il basito e l’interessato. Il ragazzo pare non essere turbato dall’atteggiamento da zoccolona della partner che cattura le attenzioni di venti maschi tutti attorno anzi, ne approfitta per infilare mani ovunque e lingua, ovunque.

Sono le otto quasi, alla fine il contest è finito. Tutti se ne vanno e anche la giuvenca. Mi dicono che c’era pure il campione del mondo, che forse ha vinto lui.

Io mi accorgo di non aver visto un cazzo, non una surfata, non una caduta.

Ricordo solo un paio di chiappe.

119° giorno – Fase Rem

Scorrono insulsi minuti di un’insulsa giornata in cui penso pateticamente che potrei fare qualcosa da solo ogni tanto, che prima ci riuscivo a tenermi compagnia abbastanza bene ed invece adesso mi sembra di no.

Ho un lettore di brani musicali digitali carico, una macchina fotografica carica, un carico di sogni e angosce quindi la cosa giusta da fare sarebbe prendere e agire, bello carico e uscire, correre carico, scattare foto ai muri e saltarli carico ascoltando rock che carica ma mi sento inchiodato e quindi allenarmi no, fare foto no. Potrei scrivere ma no.  Scarico.

Non è che sono depresso o meglio, lo sono ma non è uno di quei giorni a tinte scure, telefono che squilla e non rispondi, ti parlano ma non ascolti e rispondi “Si dopo” a qualsiasi domanda.

No non è così.

Sento una mia amica. “Mare?” “No”

Sento una mio amico. “Mare?” “No”

Rimango sdraiato. Forse oggi il mio letto mi piace più del solito e il mio corpo mi sta ordinando di non alzarmi. Chiudo gli occhi e mi ritrovo un’odalisca bionda che mentre ondeggia il culo denso di pizzo e perline, chiede i soldi a qualcuno seduto ad una scrivania. Un uomo grasso, con i baffi grigi, gilet da pescatore in pelle chiara, camicia a righine e occhiali da vista polarizzati. Comanda questo mercantile con timone a vista tutto chiazzato bianco e nero come fosse una mucca e dentro la stiva c’è una festa con tanto di palla dance oldstyle. Neanche il tempo di ambientarmi che parte la scazzottata immediatamente. Mancanza di humor degli invitati, un classico. Un tizio alto e stempiato si alza di scatto da una sedia da giardino pieghevole bianca, rovescia bicchieri da un tavolino e mi urla “ma che cazzo vuoi!” e mi tira un destro in faccia.

“Ma non è che sono apatico e asociale?” chiedo a Sorella, mezza addormentata.
“No…” risponde con voce tra fase rem e rabbia.
“Ma quando non sto giù con voi…con gli altri…e me ne sto qua…neanche in quel caso?”
“Non ti si vede da sei mesi…mi sa di si allora…”

Deve essere così, perché questo letto non è che mi piaccia poi così tanto. Ci sto tipo stretto, le braccia le devo tenere tutte piegate, la schiena fa male perché sul materasso c’è un fosso. Credo lo noti anche questo melone con i bocca e baffi da messicano che ho di fronte. Sembra Mr. Potatoe ma con il sombrero. Lo vedo dal basso, come se mi calpestasse continuamente passo dopo passo, in salita, mentre porta uno zaino enorme in spalla che occupa tutta la visuale. Digrigna i denti e suda, gocce perfette e irrealistiche da fumetto. “Mi sa che sto dormendo” mi dico mentre dormo.

“Potrei provare a stare sdraiato da basso quando ci sono gli altri, sul divano..ma anche quello non è che mi piaccia così tanto. Sento che non potrei alzarmi neanche impegnandomi ecco la verità…ma non è che sono apatico e asociale?”. Sto parlando di nuovo a Sorella. Saranno passate due ore, mi sembra ci sia meno luce. Da stamattina non so nemmeno che tempo faccia nella stanza affianco.

Sorella non risponde, dorme.

“Certo che sei proprio apatica e asociale…” le dico mentre cerco una posizione comoda per dormire. Ma non ci riesco, non riesco ad addormentarmi.

“Non è che questo letto mi piaccia così tanto” dico al melone gigante messicano.

118° giorno – Cactus

Avevo questo cactus da un euro a casa, che ho chiamato “Cactus Killer”. Il corpo era lungo e due braccia sporgevano dai fianchi, girate verso l’alto come Rocky sulle scale di Philadelphia. Era verde scuro con spine rosso-nere scurissime e lunghe.

Mi hanno detto che è morto perché gli ho dato troppa acqua, anche se a me non sembrava. Dopo un momento in cui credevo di averlo perso, si era ripreso e stavano pure uscendo altre braccia verde acceso, tutte in giro. Poi, qualche giorno dopo, il verde è diventato giallo, poi marrone, poi grigio. Poi è morto.

Quando dai il nome a qualcosa ti dispiace sempre quando lo perdi, o muore anche se si tratta solo di un cactus. Dentro la stessa serra, due anni dopo, stessi gatti dormienti e stessa condensa da afa. Stessi vecchi proprietari cotti dal lavoro e dal sole. Sono alla ricerca di un sostituto per “Killer”. Impiego un’ora buona a trovarne uno della stessa specie, nella stessa posa. È più ciccione e le braccia sono più esili ma è un grandioso sostituto. Il vecchio me lo strappa dalla terra e me lo infila in un vasetto arancione, mi mette terra nuova, mi consiglia di non bagnarlo. Eccomi con in mano “Cactus Killer Il”.

Mezz’ora dopo, sono lontano dalla serra. Ho davanti a me un uomo anziano. Quando parla con mio padre, che gli tiene la mano, dice frasi senza senso

“Le vedi, in file, erano lì”

Non riesce a fare un discorso comprensibile. Conosce mio padre da quarant’anni ma è come se fosse un estraneo.
Mio padre lo rassicura, gli racconta fatti di alcuni anni fa che lui non si ricorda più. Continua a fissare un punto indistinto del selciato, indica le crepe sul cemento, ripete “rosso, rosso, rosso”. È grigio. Tutta l’intelligenza svanita. È fermo immobile, è assente.

L’ho conosciuto. Fino a due anni fa era ancora un pozzo d’energia, di conoscenza, con le braccia in alto, come Rocky sulle scale di Philadelphia. Ora è magro, denti consumati, vestito pesante in pieno agosto.Vedo la moglie che quasi piange e la figlia, che nemmeno riconosce più, “scusi signora” le dice.

Niente serra per loro, nessun sostituto.

È tutto molto triste.

117° giorno – Silenzi

Di tutte le domande che rivolgo agli oggetti inanimati della mia camera in penombra, neanche una riceve risposta. Di certo può sembrare stupido che un essere umano grande e grosso come me finisca a parlare con delle cose, rintanato su di un letto troppo piccolo. Non mi importa.

Ho la nausea, forse sbaglio a stare sdraiato, ma non so che fare, sono stanco. Le gambe non rispondono bene e anche se mi alzassi non saprei dove andare, vorrei solo spostarmi in un altro punto dove sdraiarmi nauseato. La nausea…
Sarà il panino? O il dolce? O il secondo viaggio dell’estate tra scatole alla ricerca di un sogno? È l’ansia? È questo vento di pioggia che entra dalla finestra?

C’è vento e vento. Quello che rumoreggiava nella Peugeot 206 celeste, questa mattina, era caldo e violento sapete, la velocità. Ora invece c’è quest’aria fredda e sommessa che si insinua tra le persiane e che porta rumori leggeri. Una saracinesca che si muove, vestiti stesi ad asciugare, porte che sbattono. Forse è davvero colpa del vento la nausea anche se ormai, la vivo ogni giorno. Ai miei amici oggetti piace questo vento, li sento che confabulano sommessamente, si scambiano opinioni, scherzano. Sono simpatici i miei amici “cose” anche se non parliamo molto. Sono tutti simpatici tranne lui, il ventilatore.

Sta alla mia destra ed è quello che sta più zitto di tutti. Il grande lampadario giallo ha delle piccole frange che sbattono leggermente, il vecchio letto cassapanca scricchiola, l’armadio muove le ante. Per non parlare della porta, sempre al centro dell’attenzione. Solo il giovane con le pale rimane muto, come quando un bambino cambia scuola, entra in una nuova classe e sta zitto. Quando gli altri parlano, sta in classe da solo durante la ricreazione, torna a casa a piedi in silenzio, con la testa giù mentre gli altri scherzano e saltano nelle pozzanghere.

“Dimmi qualcosa, qualsiasi cosa…” gli chiedo, per spronarlo a socializzare con gli altri.

Niente.

Ma forse è meglio, ogni tanto, stare un po’ in silenzio.

Quasi quasi, chiudo anche gli occhi.