282° giorno – La scala #2

Mi hanno sbloccato l’osso sacro, buttato sul lettino e tirato di qua e di la, preso dai piedi e rigirato anca per anca ed ora spero che la schiena inizi a collaborare seriamente ad un trattato di pace che porti avanti una relazione lunga e proficua…sono moderatamente speranzoso anche per questa notte ed è la novità del giorno visto che ho sempre paura del risveglio e del check-up fisico fatto di scricchiolii e fitte ovunque. Ho deciso di andare alla scala, dove mi alleno quando l’inverno piovoso diventa una costante, sono appena uscito dallo studio dopo aver infilato le spoglie borghesi nello zaino per indossare quelle del traceur part-time, ancora sotto la pioggia, ancora nel freddo mentre salto una corda nell’indifferenza della città, congestionata e allagata che quando piove capisci che non è poi cosi piatta come credevi…è tutto un fiume e un torrente e specchi d’acqua che riflettono tutte le luci ed è pieno di luci questo posto, messe anche dove la gente non guarda e non cammina. Le domande tra le piu stupide mi vengono in mente mentre salto la corda, come “dove finiscono tutti i criminali della piazza quando piove…dove vanno a nascondersi?” che di posti malfamati ma al chiuso nei paraggi non ne conosco da quando alla stazione hanno messo il presidio caramba perenne. Io intanto salto la corda fino al distacco braccia…altro che correre, che ormai mi massacra caviglia e ginocchia…meglio saltare a ritmo, coordinare i piedi finché non cominciano ad andare da soli ‘destro…sinistro…destro…sinistro…uniti…avanti…dietro…’ ed è un po come danzare, dancing in the rain…da solo come uno scemo, addosso stracci che peggio non si può, puzzolente e brutto ma a ritmo, con il rumore su quelle piastrelle sporche in sincronia con il battito”Tum-Tum-Tum”.

Passano i minuti e ancora salto…e spero davvero che una volta raffreddati i muscoli, a casa, il fisico ricominci a collaborare…mi serve…un tassello da mettere in posizione e ricominciare meglio da domani mattina , per una volta riposato che chissà, magari ne saltano fuori altri ancora che lo si dice sempre…cose positive chiamano cose positive.

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263° giorno – La compagna di allenamento

Io mi alleno tra due piazze collegate con scale, sbarre e pezzi di strada, anche se erano due mesi o forse più…anzi ‘più’ che non ci ritornavo…soliti conti in sospeso con virus, ginocchia, dolori muscolari e il fatto che io mi dimentichi sempre di fare stretching quando serve, quindi sempre.

Non mi conosce nessuno…ma mi salutano tutti…beh si…tranne quella bellissima ragazza baciata dal sole del condominio sotto i portici in realtà…lei ancora non mi saluta ma gli altri, tutte le famiglie, quando escono e mi incrociano sorridono o un cenno di riconoscimento, mi dicono due parole tipo “sempre ad allenarti eh?” e io “eh si…grazie salve”…fa piacere ecco.

Quest’estate, esco dal lavoro e ancora il sole splende e nell’aria ci sono i gradi di adesso ma moltiplicati per dieci. Verso le sei, ogni giorno, sbuca fuori questa vecchietta che ha una particolare adorazione per me…mi chiama dalla finestra e io mollo l’allenamento ogni volta per stare lì a fare due chiacchiere anche se significa fare lo strillone delle notizie serali visto che è sorda e non sente un cazzo di niente. I discorsi sono sempre i soliti…operazione al bacino da fare…cosi gli dice il dottore ma lei non se la sente che non si sa come va e io che le dico che dovrebbe farla che camminare bene è una cosa importante visto che le piace andare in giro dai nipoti nonostante gli ottantatre anni e lei che parla in dialetto lombardo e capisco solo due parole su venti ma faccio comunque ‘si’ con la testa e mi ripete stavolta in italiano che alla sua età è dura cambiare e che la vita è cosi che c’è chi resta e chi va come suo marito e come andrà andrà e poi chiede di me del lavoro e di mia madre…non so perché mi chiede sempre di mia madre.

Fatto sta che un giorno, vado ad allenarmi ma sono incazzato, piove pure e io sto li con cappuccio e rabbia e mani che si stringono, volume che perfora i timpani, salti che distruggono le ginocchia e manco mi importa perché voglio che il male si senta più della rabbia e che i denti si stringano per la fatica e non per i pensieri e sto li, sotto il portico, a sudare come un maiale e a sfogarmi e vedo la tapparella che si alza e la vecchina che si affaccia alla finestra…la noto con la coda dell’occhio e mi chiama, fa gesti…mi saluta.

Io però la ignoro, ho il cappuccio e faccio finta di non vedere, mi giro, inizio a correre tra piazze e scale sfuggendole alla vista stando sotto piante e archi e infilandomi per il resto della serata nell’altra piazza, quella grande, quella in cui non mi caga nessuno.

Poi torno a casa…e i giorni dopo ultimi impegni, lavori da finire, serate finali, parto, Sardegna per un mese e più, al ritorno subito malato e subito altri impegni e mi faccio male, mi alleno a casa, mi alleno con altre persone in altri posti, poi non mi alleno e basta per due mesi, ricomincio, autunno e influenze, altri dolori ed eccoci qui, che riprendo sperando in un po’ di tregua…e sono già tre giorni che passo nella piazzetta e vedo la tapparella giù e le luci spente e ci penso…sapete a cosa…che forse è morta, che a quell’età pure malconci può succedere che come dice lei c’è chi va e c’è chi resta e mi dispiace perché ripenso a quel giorno che non dovevo ignorarla ma fermarmi e parlarle, che la rabbia se vuoi con la testa la controlli e non lasci che sia lei a controllare te, che il rispetto per gli altri e le gentilezze fanno parte di te e non si dimenticano per una giornata storta.

E adesso sono qui, che faccio un po’ di esercizi e c’è freddo e il vento e la pioggia e la mente sgombra e controllata, il volume a 24 e la felpa di superman quasi zuppa quando quella luce si accende e la tapparella si alza. Sbuca la testa della vecchina ma non guarda me…solo fuori, nemmeno mi ha notato dietro gli alberi tutto incappucciato…sta li e guarda la piazza, il vento la pioggia e il buio con i suoi pensieri e io mi dico che potrei pure starmene qua dietro a farmi i cazzi miei ma poi vado verso il centro della piazza, dove può vedermi anche se so già che mi parlerà del bacino e del dottore e dei nipoti e del marito e delle scelte e mi chiederà di mia madre, come ogni volta ma si…che importa, mi tolgo il cappuccio, faccio quattro passi verso il centro e alzo un po’ la voce.

“Salve come va?”

208° giorno – Camomilla

Sto li davanti alla tazza per quella che mi sembra una mezza eternità e so benissimo che iniziare con l’immagine di me stesso pisello all’aria che piscia andando avanti e indietro con il corpo solo per far cambiare il suono che fa non sia un granché, poco elegante, da sconsigliare alle persone decenti e per bene.

Visto che ci sono smanaccio anche la pancia, che doveva essere sparita a fine Ottobre ed invece, ora che arrivano Pandori e cioccolati assortiti, è sempre li. Per un motivo o per l’altro non riesco ad essere costante negli allenamenti e spesso sono io che dico “meglio domani” o “da lunedì” o “aspettiamo il 15 che è metà mese che è meglio”, con il tanto famigerato foglio degli allenamenti che devo sempre stampare e invece è li da mesi salvato in un file senza nome.

Devo recuperare spirito, un ipod con cronometro e cuffie nuove, un k-way antipioggia che ne ho le palle piene di sentire l’acqua addosso che scorre dentro felpe zuppe come stracci per lavare pavimenti di scuole elementari. Adesso le cose stanno cosi, che volete farci.

C’è che sto diventando vecchio mentre il mondo attorno mi sembra sempre giovane. Rimanere allenati, pronti, capelli ben rasati per non sembrare quarantenni, prendere la macchina ed uscire anche se ti devi alzare da comodi divani costa energie, che non assimili abbastanza perché mangi poco e di merda, dormi un cazzo, litighi con la gente, ti fermi in fissa davanti ad un parabrezza appannato con gocce e vapore in un parcheggio di notte e collassi su un divano chiedendoti che cazzo sai fare davvero…forse nulla…mille cose ma forse nessuna davvero bene o utile e quindi bo…chissà fra tre anni dove sarai.

Stasera sto a casa intanto, sono già uscito ieri…cinema…Thor…gente che si prende a pugni ripetutamente che esci sempre con la domanda “ma dove sono gli altri supereroi suoi amici…avranno visto il telegiornale no…qua il mondo sta finendo e non fanno un cazzo?” però soddisfatto da cazzotti sinceri e testosterone in sala. Vado di là e mi preparo una camomilla. Pentolino e acqua, metto a scaldare, bustina Bonomelli che strappo e polverina gialla che verso nella tazza. Metto l’acqua calda e cinque di zucchero poi, mi metto a lavare il pentolino…poltiglia verde densa odor limone, un filo sulla spugnetta verde pure quella, gratto e passo, movimento antiorario poi risciacquo.

Quando la appoggio sul lavandino mi viene in mente che alla fine ci ho solo bollito dell’acqua e che potevo evitare di lavarla…fanculo.

Sono sbagliato ecco…le piccole cose e i dettagli a cui non faccio caso e che diventano montagne di detriti.

Vabbè, metto un film e mi infilo a letto…bevo quella specie di zucchero liquido. Non mi alzerò più fino a domani…è deciso.

Per una volta lascerò i miei denti in balia dell’attacco degli acidi…

206° giorno – Metronomo

Salto con la corda, occhi fissi davanti e la quasi ipnosi con quei lampioni lontani che fanno su e giù.

Ha smesso di piovere, riprendo a fare qualcosa dopo due settimane di lavoro intenso, schermi, radiazione, tredici ore seduto. La gente litigava, aveva fretta e parlava troppo.

Le gambe fanno male dopo dieci minuti ma è bello tornare ad allenarsi. Mi sporco anche le mani nel cemento spaccato e bagnato dell’entrata dei garage…niente piazza, niente tempo, niente lista da seguire.

Dopo due settimane di scalette, scadenze, orari lascio che il rumore della corda sul cemento mi faccia da metronomo.

Basta lancette, basta secondi, non ascolto nemmeno la musica. Almeno fino a domani.

189° giorno – Requiem (Cuore e silicio)

Due lutti in due giorni, anche se si parla di oggetti. Ieri il tagliacapelli mi ha lasciato con un lavoro fatto a metà…che sembravo Two-Face di Batman. Mi sono ritrovato a tagliarmi la barba completamente…non succedeva da quanto…almeno 4 anni.

Oggi però è più dura…il mio iPod non si accende più, nonostante i ripetuti tentativi di rianimazione tramite massaggio cardiaco MENU + tasto centrale premuti a ripetizione. Da giorni lo schermo era totalmente bianco…connesso con un cavo alla presa elettrica oggi non si è più accesso…spina staccata…

Si dice che le migliori cose della vita siano gratis…vero…anche il mio iPod l’ho avuto gratis.

Trovato dal ragazzo di mia sorella in piscina, subito accolto a casa come un figlio. Ci ho corso da ciccione ogni giorno per un anno, poi da quasi in forma fino a saltare da sbarre e muretti, arrampicarmi, fare equilibrio su tondi di metallo, cadere, farmi male. Ha subito acqua dal cielo, dal mare, sudore, botte e imprecazioni per quella faccina triste sullo schermo che compariva quando si bloccava.

Volato dalla tasca per cadere per terra…almeno mille volte.

Usato per viaggi in treno, trasferte notturne in macchina, autobus, aereo…mille volte.

Ci ho conosciuto gente nuova, mi salutano e il gesto di togliermi l’auricolare destro e premere ‘||‘…almeno mille volte.

Stare fermo a guardare panorami, scattare foto sulle strade, ritornare da allenamenti bagnato di pioggia, attendere autobus, persone, risultati, risposte sempre con la musica nelle orecchie…mille volte

Ci ho ascoltato un sacco di canzoni nuove che mi rimarranno, le playlist che sapevo a memoria in repeat, osservando puntini di luce rossi in lontananza con i Vib Gyor in cuffia…notti di lavoro con Painless Steel dei Bohren & der Club of Gore a riproduzione infinita…gruppi che andavano e venivano per lo spazio risicato…serate insonni di malinconia persistenti curate con Pearl Jam e Godspeed You! Black Emperor.

Mai sostituito nonostante altri quattro o cinque lettori in giro per casa, più capienti, migliori, scintillanti.

Ora purtroppo mi tocca rimpiazzarti.

Nella tasca, ma non nel cuore.

Immagine

185° giorno – Il colore dell’odio

“…e quindi pensavo di scrivere una lettera ai vigili…ma in tono educato…non solo insulti…però poi ci scrivo anonimo…aggiungendo che altrimenti stronzi come sono mi verrebbero a prendere a casa per farmela pagare…”

“Buona idea Teo…” rispondo, anche se non ho ben capito il perché della lettera…sempre che esista un perché.

Ma sono distratto, potrei non aver sentito, cosi preso dal lavoro…distratto dal cazzeggio di routine insomma. Ho di fronte un video fatto con una fotocamera da 30 euro che mi sta facendo parecchio incazzare. L’ho infilato dentro un software da 13.000 euro crackato che ci hanno pure fatto Avatar e quello mi restituisce una schermata bianca e io non capisco cosa stia succedendo. Lotto tra formati, importazioni, filtri ma invece di bombole, ingranaggi e macchine in azione continuo a vedere una simulazione della Siberia in inverno.

Rimango in ditta un’ora in più, esco che sono da solo nel capannone, rispetto a ieri mi sento meglio. Voglio tornare a casa, prendere l’iPod, andare ad allenarmi. Mi preparo con la solita robaccia addosso, prendo il lettore.

Schermo bianco. Cazzo me ne ero dimenticato. Lo resetto quattro volte, lo schiaccio, lo sbatto per terra, lo insulto e lo picchio ma nulla…schermo bianco. Sembra una maledizione.

Aspetto la cena, abbastanza nervoso. Essendo nervoso devo mangiare qualcosa. Per forza. Mi ricordo delle arance in frigo. La sbuccio, sembra gustosa ma quella pellicina attorno alla polpa è come mastice. La tiro e mi distrugge ogni spicchio…il tavolo sembra una sala operatoria. Quando non riesco a staccarla o mi stufo la mangio insieme alla polpa ma è amara al limite del fastidio.

Ancora più nervoso. Dannata pellicina…pellicina bianca.

Che colore del cazzo.

172° giorno – Stomaco in subbuteo

Mia sorella mangia quanto Microchippy, il mio canarino. Hanno entrambi due foglie di lattuga nel piatto solo che Chippy almeno, come contorno, sgranocchia semi di girasole.

Io ritorno dall’allenamento, dove ho recuperato un “ciao” dalla mia bionda cameriera e dopo, me ne rimango sdraiato dieci minuti su tre metri di cemento a guardare il vapore acqueo che sale verso quell’unico puntino di luce li sopra, una stella credo anche se sembra che si muova, anche se sembra che sia un aereo. Improbabile, anche se sembra.

Quando mi incammino, con una spalla sinistra che brucia, incrocio un tizio con pantaloni rossi e cappellino rosso…mi guarda e mi supera con il tipico passo accelerato che ha anche mia madre, che quando è di fretta mi devo mettere a correre per starle dietro. Sembra quasi fisicamente impossibile.

Comincio a seguire l’uomo, che nota la mia ombra ed accelera.

Quindi accelero.

Aumenta ancora il passo della camminata.

Quindi accelero.

Arriviamo ad un punto in cui ci dobbiamo dividere, io gli sono dietro di un metro al massimo, lui continua a guardarmi con la coda degli occhi. Vado a destra continuando a guardarlo, costeggiando la frattura che divide il mio paese. Lui, fa finta di osservare i jersey di cemento e i blocchi di plastica e le linee gialle per terra. Io lo fisso e cammino.

Altri venti metri.

Il tizio si gira e mi guarda, io pure. Ci guardiamo per altri cinque metri poi, una costruzione ci nasconde, io continuo verso casa, costeggio ancora il fossato che sogno di riempire d’acqua…e gondole…e fare terminare tutto in una cascata, li, dove la roccia finisce e inizia il ponte di ferro. Oltre, la strada che si stringe e case abitate. Oltre, costruzioni mai finite e distese di asfalto sempre nuovo e poi casa mia.

Primo piano, scarpe via, felpa da supereroe via, dritto in cucina, acqua. Mia sorella sgranocchia una foglia di lattuga, come Microchippy.

“C’è del pollo…”

“No grazie…ho lo stomaco in subbuteo…”

“Subbuteo?”

Già…subbuteo?

Non ci ho mai giocato al subbuteo. Non so neanche come si gioca, al subbuteo. Non so nemmeno se esiste ancora il subbuteo. E chissà perché si chiama cosi…

Subbuteo.

No, mai messo mano su un subbuteo.

Avrei voluto.

157° giorno – Il cimitero delle macchinine

Cammino come un gatto nella piazza deserta con solo la cameriera del bar che impila sedie e le trascina dentro, prima della chiusura. Mi piace, è molto carina e si muove in un modo che mi affascina quindi ogni tanto, mi concedo uno sguardo distraendomi dal noioso reticolo di mattoni grigi e rossi che mi fanno andare dritto.

Alla quarta distrazione, sento un profondo dolore nel palmo sinistro, come di una lama che si conficca nella carne. Un sasso, o un vetro penso ed invece è un oggetto quadrato, bianco e nero.

“Un alettone…”

Si, un alettone di una macchinina, una formula 1, un dramma che comprendo fin troppo bene…la disperazione di un bimbo che si ritrova un giocattolo monco…un alettone poi, una cosa fondamentale per una vettura da corsa.

Le macchinine e i modellini che si rompono o vanno persi, sono piccole tragedie che si trascinano negli anni. Io, a trent’anni quasi, ancora ricordo tutte le tragiche perdite dell’infanzia: la Fiat 131 Mirafiori arancione persa nel divano di mia zia Erminia, la Peugeot 406 Dakar distrutta nel salone dell’asilo, con le ruote divelte oppure, il mio F16 cangiante, che diventava blu se messo in freezer e rosso sotto l’acqua calda, con le ali leggermente sbeccate all’insu, come le terribili squadrette d’alluminio del liceo o il mio bellissimo trattore fatto di lego con motore a vista…

Tutti ricordi tristi, anche se il peggiore rimane Commander alias Optimus Prime dei Trasformers, un vero camion robottone con rimorchio apribile, accessoriato con altri Trasformers e che poteva diventare base di supporto con lanciamissili a molla. Il sogno di tutti i bambini, con l’adesivo degli Autobot che si colorava se ci alitavi sopra e lo sfregavi e poi…che bello tutto chiuso, rosso fuoco con rimorchio grigio metallo. Comprato un’estate di gioia e sparito l’agosto successivo, volatilizzato.

Dramma.

A volte me lo sogno e ancora, da grande, controllo tutti gli scatoloni in soffitta, per trovarlo.

Io ancora ci spero…

153° giorno – Pasqua

Stravaccato su una poltroncina con rotelle e tessuto verde mentre attendo che la stampante RICOH multi-accessoriata con scanner, caricatori multiformato, tamburi e slot colori singoli ad innesto rapido sputi fuori risposte cartacee ai miei input annoiati.

“Sai perchè ti sei sempre infilato in situazioni impossibili e complicate? Perchè hai paura di innamorarti davvero di una persona facile da raggiungere…è una cosa inconscia la tua” mi dice la segretaria con voce severa

“Sarà…magari è quello…e poi chissà se mi sono mai innamorato davvero…” rispondo, mentre gioco con una chiavetta USB piena di pezzi della mia vita.

“…quando ci penso…non ne sono davvero sicuro…” continuo.

Stravaccato su una poltroncina con rotelle e tessuto verde nel terzo giorno di pigrizia di fila, con un po’ di dubbi e di pensieri mentre gioco con puzzle a tinta unita che mi fanno uscire di testa. Devo concedermeli ogni tanto, tre giorni cosi, come faccio per l’insonnia che mi distrugge l’esistenza. Capita, a fine mese, che per tre giorni dorma come tutti gli esseri normali. Capita che dopo un mese di allenamento intenso, mangi pizza per tre giorni di fila. Capita e mi tiene sano di mente ricordarmi che a volte la forza di volontà, l’impegno, la sicurezza, le idee chiare si ritrovino disperse in un banco di nebbia, perse in un bosco, per tre giorni.

Negli ultimi istanti di lavoro, stavolta di giù, lontano dalla super stampante, fisso lo schermo svogliato e uccido un po’ di zanzare tigre. Mi passo la mano destra sui capelli da tagliare, sulla barba incolta e sento quel dolore che morsica il polpaccio. Penso che tanto manca poco alla mezzanotte e che da domani si ricomincia con un paio di pile nuove, cancellando le ultime settantadue ore e i lamenti dei muscoli e i puzzle e i pensieri.

Si, tre giorni di fragilità vanno bene.

Se li è concessi anche Gesù.

137° giorno – L’abito del monaco

Mentre confeziono nella noia degli ultimi minuti di lavoro un cuore fatto in filo di stagno, mi ritrovo a pensare a come io appaia alla gente, quando mi incontra. Di certo non sembro uno che confeziona cuori di stagno abitualmente, questo è sicuro.

Quando ieri camminavo tra la gente del corso, provavo ad immaginare di incontrarmi per caso sulla strada per vedere un po’ che impressione faccio, cosi, dall’esterno, a me stesso.

Ha senso?

Indosso una maglietta che mi sta diventando piccola, perchè da quando la spalla sinistra collabora un di più riesco ad allenarmi ogni giorno e questo mi fa sembrare ancora più grosso. Ci sto dentro a stento. Da fuori, un sacco di gente potrebbe pensare che occupo due-tre giorni alla settimana in palestra a pomparmi, per questioni di apparenza, per sembrare grosso e cattivo e far paura alla gente e provarci con le tipe sui tappeti da corsa. Potrei sembrare un tipaccio, uno psicopatico, “non ti conoscessi non ti vorrei mai incontrare da solo in un vicolo” mi dice un amico. Ma loro non sanno che ogni giorno, anche se stanco dal lavoro, mi ritrovo in una piazza, con la gente che prende l’aperitivo e che mi guarda come fossi uno scemo, a sudare e a resistere alla fatica e alle gambe che bruciano, alle braccia insensibili, appeso a sbarre, a muretti, a correre, saltare, ruotare le articolazioni anche quando piove, quando c’è freddo e la neve per terra, quando esco dalla ditta e il sole è sparito da due ore e tutto questo solo per amore del movimento.

Mi incrocio mentalmente sul pavè della piazza e penso che mi vedano serio, che non sorrido mentre cammino dritto e tutto questo riflette la prima impressione. Per loro è un “stanne alla larga” istintivo, ho la faccia di uno da non far salire in macchina se mi trovano a bordo strada che faccio autostop. Uno che non scherza perchè non ama scherzare, inutile farmi battute, sono un duro, cuore di pietra, anche se ne confeziono di stagno. Ma loro non lo sanno, la realtà è che non sanno che non sorrido solo perchè la mia faccia non mi piace cosi tanto quando mi viene da ridere. Non sanno che penso sia cosi anche per gli altri. Magari sbaglio, ma io mi vedo strano, mi sento strano, quasi un po’ forzato quando sorrido. Se mi dicono “ridi che facciamo una foto” ne esce un mezzo ghigno. Poi, bastano due minuti e mi metto a diffondere gioia per ogni stupidaggine mentre ne sparo una ventina pure io. Mi serve qualche minuto per carburare quella parte del cervello.

Mi osservo guardondomi dritto negli occhi e anch’io mi osservo, guardandomi negli occhi mentre mi passo a fianco. Ho lo sguardo tagliente.

Ha senso?

Capisco quando dicono che tiro occhiatacce, credo che da fuori sembra che io odi la gente, che sia costretto ad attraversare fiumane di persone per me insignificanti e che guardo con disprezzo. In realtà osservo tutto, fin nei minimi dettagli ed è perchè scatto mentalmente, come se avessi la mia Fuji sempre in mano. Ogni scena di vita per me è inquadratura, ogni dettaglio insignificante può nascondere del bello, e tutti quei dettagli e i gesti minimi, diventano anche le storie che leggete qua sopra. Non disprezzo, amo.

Se tiro le fila del discorso, ne viene fuori che io sembri davvero una brutta persona da fuori, da sobborgo di Caracas, che nasconde il ferro e fa affari loschi, picchia i bambini, maltratta le donne, pensa solo a se stesso, psicopatico.

La realtà è che faccio il designer, il fotografo street, lo scrittore, ogni giorno. Amo Bukowski e Murakami, mi commuovo con i film, non riesco nemmeno a schiacciare gli insetti che trovo in casa, devo riportarli fuori. Amo fare regali agli altri, ho bisogno degli altri. Adoro il mare, il rumore del fuoco, la luce che rimbalza sugli oggetti, ridere.

Ho sentito un sacco di giudizi riportati, sentendo voci, su di me. “Sembra uno stronzo” “egoista” “egocentrico”. Tutto da gente che mi ha visto una sola volta.Credo di essere abbastanza disastroso alla prima impressione.

Purtroppo la gente è davvero stupida mi dico. Però poi, penso a me stesso e a quante volte anch’io finisca per fare la stessa cosa.

Vorrei davvero provarci d’ora in avanti a non mettere mai più una persona in uno schedario dopo i primi quattro minuti.

Che alla fine anch’io quando sono ‘la gente’ sono stupido.

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